Wednesday 12 May 2010

Una serata all'Operà!

Fra le innumerevoli cose belle che la citta' di Londra offre, gli spettacoli teatrali rientrano senza dubbio nella top ten. Gli spettacoli del West End sono leggendari! Per gli amanti dei musicals c'e' una scelta interminabile; praticamente, tutti, e dico TUTTI i musicals che ho visto a Londra mi sono piaicuti da morire, da Mary Poppins a Wicked, da Chicago a Priscilla. Ci sono le commedie dal sapore avanguardista, come lo spettacolare e divertentissimo e originalissimo 'The 39' Steps'.
Per non parlare poi spettacoli che, per regia o sceneggiatura, vengono considerati rivoluzionari e artisticamente rilvanti: ricordo con commozione l'ultima produzione di 'Bent', con un Alan Cumming davvero strepitoso; e, relativamente piu' di recente, il taglientissimo e velenosissimo 'Fat Pig', dell'irriverente Neil Labute. Insomma, tanti spettacoli, di tutti i tipi, per tutti gusti. Ne ho visti molti, ma ahime' ne ho persi troppi... Del resto, a Londra a volte e' come stare a teatro: il tempo vola!
Ma sempre fra le innumerevoli cose belle che offre, ci sono delle cose che la citta' di Londra non offre a tutti quanti, residenti o turisti o visitatori o chicchessia. Ci sono delle cose che la citta' di Londra offre solo a chi la abita. Come, per esempio, il piacere di andare in un teatro che non sia nel West End!

E' stato cosi' che qualche settimana fa mi sono ritrovato dalle parti di Angel, nel cuore di Islington - zona Nord-Est di Londra - e andare a teatro proprio la' (visto che non e' nemmeno lontano da casa mia). L'occasione? 'Prima Donna', opera contemporanea del cantautore Rufus Wainwright. Si', ho scritto bene: non commedia, o piece, o musical... proprio opera, con soprano, tenore, orchestra e via discorrendo. Con un intreccio, poi, veramente da 'opera contemporanea': Prima Donna racconta la storia di un grande soprano la quale e' oramai sul viale del tramonto, avendo perso la voce per cause psicofisiologiche e ridotta alla disperazione nella solitudine di un mondo che non apprezza piu' l'opera e le sue dive.

Il fascino dell'opera, la magia del teatro, le grandi aspettative per un musicista di grande cultura e sensibilita' come Wainwright: insomma, gli ingredienti per un ottimo spettacolo c'erano tutti. Allora... perche' 'Prima Donna' non mi e' piaciuto? Non che mi sia 'dispiaciuto': semplicemente, non mi ha fatto strappare i capelli. Forse perche' da Wainwright mi aspettavo una musica piu' trasgressiva, che rimettesse in discussione i cliche' dell'opera in modo genuino e originale. Forse perche' le passioni rappresentate in scena erano veramente esagerate, dal momento che la storia, raccontata in due atti, si svolge nel giro di una sola giornata. Forse perche' il soprano che interpretava il grande soprano non era un grande soprano. Forse perche' il tenore aveva una voce migliore del soprano, ma non nel senso che era un grande tenore, ma proprio nel senso che aveva la voce da soprano. O forse perche' i tre quarti del pubblico non era li' per vedere 'Prima Donna', ma solo per vedere 'l'opera di Rufus Wainwright'... il che esattamente non e' la stessa cosa.

Per piu' di due ore mi sono dovuto sorbire i sussurri e i bisbigli di orde di fan impazzite, che rimanevano sedute a sorbirsi duetti e grandi arie con la grande speranza di vedere il loro idolo. Il sig. Rufus effettivamente non ha deluso le aspettative e ha fatto la sua esuberante apparizione sul palco, dopo il giro di applausi al soprano, al tenore, ai coprotagonisti e al direttore d'orchestra (e ricevendo piu' applausi rispetto a quelli concessi al soprano, al tenore, ai coprotagonisti e al direttore d'orchestra).

'Siete contenti, adesso?' mi era venuta voglia di urlare. Poi mi sono guardato attorno: ragazzine urlanti e piangenti che sospiravano 'Rufus, Rufus...' (tempo e lacrime sprecate: Rufus Wainwright e' dichiaratamente e notoriamente gay), ragazzi vestiti da cocchieri Ottocenteschi, con tanto di scarpe intacchettate e tuba sul capo, signore impellicciate che continuavano a ripetere 'Bellissimo! Bellissimo!' anche se non c'avevano capito nulla di tutta l'opera. Insomma, che dire delle mille contraddizioni della citta' di Londra? Dove ci sono alcuni fra gli spettacoli teatrali piu' belli al mondo, ma non sempre il pubblico adatto che li assiste... Se poi lo speattacolo non e' esattamente fra i piu' belli al mondo, la qualita' del pubblico, specie se molesto, puo' addirittura essere determinante nel giudizio finale complessivo.

Aldila' del suo autore notioriamente egocentrico, della qualita' dei cantanti, della musica talmente accademica da essere piatta, ci sara' almeno una cosa buona in 'Prima Donna'? Eccome! Nonostante il titolo in Italiano, nonostante Wainwright canti in Inglese, nonostante, infine, ci trovassimo a Londra, dove persino le opere di Verdi, Puccini e Mozart vengono tradotte e cantate in Inglese (che ci crediate o no), 'Prima Donna' e' cantato interamente in Francese. La storia poteva essere facilmente seguita attraverso i subtitles che apparivano su dei teleschermi piazzati in ognidove, pero' tutto, dal primo Do all'ultimo Si, e' stato eseguito rigorosamente nella lingua dell'amour.

Un attacco sanguinario nel cuore di una Nazione che molto spesso, ahime', definisce cultura solo quello che e' espresso in lingua Inglese...

L'ottimismo di quei due.

L'Old Theatre della LSE (London School of Economics) era pienissimo. La fila, lunghissima, l'avevo sopportata con curiosita' e placida aspettativa, riuscendo a prendere posto in una delle prime file del palco. Il moderatore dell'evento prende la parola e annuncia, con un brivido di trasgressione: 'I apologize to all the native English speakers present in the room today: I am afraid that this event will be entirely in Italian!'. Una conferenza fatta tutta in lingua Italiana in una delle universita' piu' importanti e gloriose di tutto il Regno Unito: e quando mai si era mai vista una cosa del genere?

Merito di quei due. Sono entrati accolti da un'ondata di applausi e qualche gridolino eccitato, come due pop-stars. Hanno preso posto alla scrivania della scena spartana con educazione e distacco. E poi, rompendo un silenzio che, per quanto breve, era davvero diventato insostenibile, hanno cominciato a parlare, parlare, parlare. Che faceva il pubblico di Italiani a Londra? Bhe', che altro si fa quando parlano quei due? Si sta a ascoltare, ascoltare, ascoltare.
Quei due, infatti, mica sono due qualsiasi. Sono nientepopo' di meno che Marco Travaglio e Antonio Padellaro. I pilastri del giornalismo italiano. Nonche' la sua speranza.

I due semidivi hanno fatto la loro apparizione londinese lo scorso 5 maggio. La conferenza si intitolava 'The Status of Freedom of Information in Italy'. Si era nel pieno di notizie e argomenti scottanti: la posizione veramente bassa dell'Italia nella classifica mondiale sulla liberta' di stampa; lo 'scandalo delle case' scoppiato attorno alla figura di Scajola; ma anche le imminenti elezioni in Gran Bretagna... Insomma, di carne al fuoco ce ne era tanta. Travaglio e Padellaro, quella carne, l'hanno proprio cucinata bene: a fuoco lento, secondo le vecchie e immortali ricette della nonna, mischiando sapori agro-dolci, salati e speziati, spruzzando il tutto con un po' di vino e, soprattutto, rimescolando, rimescolando, rimescolando tutto con cura, fino a che il magma impazzito di informazioni non e' diventato una crema compatta, coerente, senza grumi.
Per essere giornalista non ci vuole solo talento, o intuito, o ispirazione. Quei due lo hanno dimostrato. Fare il giornalista e' un po' come cucinare: ognuno avra' pure i suoi segreti, ma la maggior parte e' tecnica, dedizione, pazienza, lunga preparazione. Il giornalismo e' arte: non nel senso che e' un'attivita' 'artistica', ma nel senso che e' un'attivita' 'artigiana', di antica e gloriosa origine, dove bisogna metterci l'esperienza, il sudore degli arti, il senso della misura.

La conferenza e' stata bellissima. Ma a conti fatti, cosa si e' detto in quella conferenza? I due hanno concluso con una (strana) nota conciliatrice, un ottimismo quasi ingiustificato. A conti fatti, se persino una 'Nazione di boccaloni' (Travaglio) non ha creduto alle affermazioni di Scajola, e se lo scandalo della casa lo ha portato alle dimissioni, un po' di speranza in Italia c'e', no? In fondo, se quei due sono riusciti a fondare un giornale veramente indipendente, Il Fatto Quotidiano, che si vende e che si legge, la stampa Italiana sta progressivamente liberandosi, giusto? E a pensarci bene, se la maggioranza degli Italiani ha smesso di porre la propria fiducia elettorale in Berlusconi e l'ha spostata verso Bossi che, pur non essendo esattamente un grande statista (ne' uno stinco di santo nel mondo delle idee politiche, aggiungerei io), e' un 'nemico meno temibile' (forse), qualche passo avanti lo stiamo facendo anche noi, vero?

... Non so. Io personalmente ero un po' spaesato da tutto quel loro ottimismo. Non perche' ritengo che l'ottimismo in generale non sia una buona attitudine nella vita, tutt'altro. Ma i fatti sono fatti. E' veramente sufficiente che un giornale indipendente si venda nelle edicole italiane, che un ministro si dimetta, o che si passi dalla padella nella brace per cominciare a fare i salti di gioia?

Tutt'altro: una sottile disperazione era emersa. L'ho notato dalle domande che venivano poste ai due giornalisti. Domande intelligentissime, fatte da ragazzi e ragazze intelligentissimi, cosi' acuti e reali nelle loro questioni che mi hanno fatto sentire orgoglioso di aver studiato alla London School of Economics. Una ragazza, Federica (se non ricordo male), ha raccontato la sua esperienza da giornalista in Italia (poche domande sul perche' abbia poi deciso di trasferirsi in Inghilterra). Quello che chiedeva, in parole povere, cioe' in parole dignitose, era: bastera' il Fatto Quotidiano a fare giustizia, a vendicare quei giovani Italiani preparati e intelligenti che non riescono a lavorare come giornalisti, perche' vengono pagati una miseria, o non pagati affatto, perche' non hanno le conoscenze giuste, perche' non sono raccomandati, perche' non sono figli di qualche pezzo grosso? O semplicemente, perche' hanno un senso dell'etica professionale? Bastera' il successo del Fatto Quotidiano a far urlare 'vittoria', oppure elevare la parte a esemplare del tutto non e' altro che un'ipertrofica sinnedoche? A quella ragazza, quella Federica o come si chiamava, ho fatto un applauso da scorticarmi le mani, le ho persino urlato 'BRAVA'!

Perche', in fondo, senza nulla togliere alla professionalita' e alla grandezza di Travaglio e Padellaro, i cui meriti sono davvero innumerevoli e che sono riusciti a reinventare e far rinascere un nuovo giornalismo in Italia, in quella conferenza alla LSE hanno parlato di loro. E di quelli come loro. Cioe', della loro generazione. Mentre noi del pubblico... bhe', forse noi avremmo voluto sentire parlare, e parlare, di noi.
Nel corso della conferenza, Travaglio ha fatto riferimento alla 'fortuna di chi non abita in Italia'. Quindi, a conti fatti, siamo noi quelli fortunati, perche' non abitiamo in Italia, siamo lontani dalle orride congiure di palazzo che si ripercuotono su tutta la penisola, abbiamo un accesso piu' facilitato e meno inquinato a notizie e informazioni e quant'altro. Ma lo siamo davvero, fortunati? In passato, quando una persona era costretta a vivere lontana dalla propria patria, non era considerata fortunata: era considerata esiliata. E non che l'esilio volontario sia piu' sostenibile di quello imposto...
Guardavo le facce degli studenti della LSE. Quelle facce intelligenti, piene di idee e vispe. Facce a volte un po' tristi. Facce di chi se ne e' andato e non sa quando ritornera'. Facce di chi e' arrivato in un posto che, per quanto bello e sfavillante e pieno di opportunita', non e' casa.

A noi chi ci pensa? Apparentemente nessuno. Ancora peggio se penso che i giornalisti hanno gia' ideato la definizione per descrivere ai posteri chi erano quelli della mia generazione: esiliati? No: 'fortunati'.

Una piccola connessione.

'Pronto? Ci sei? Sei connesso?' - gridava un comico italiano qualche anno fa. Al giorno d'oggi, sono tutti 'connessi', tanto che se qualcuno, si scopre, non lo è, subito lo si reputa strano, fuori dal mondo, diverso, stupido. Mentre il popolo dei 'disconnessi' si sta drammaticamente riducendo, il mondo contemporaneo va progressivamente rafforzando nuove connessioni. Proprio così: la tecnologia ha fatto passi da gigante, i frammenti di informazione sono talmente connessi tra di loro che riescono a viaggiare in tutte le parti del globo, a trasmettersi in tempo brevissimo, il tempo di un CLICK. Siamo così abituati al potere delle connessioni che non ci domandiamo piu' neppure:

Connessi 'a cosa'?

Le connessioni sono diventate parte del nostro ambiente vitale, i nostri habitat non sarebbero più naturali senza l'artificialità delle connessioni piu' avanzate. Il nostro è un mondo olisticamente connesso: tutto è connesso a tutto il resto. Come in questo momento, per esempio: il mio portatile  è connesso a internet e, tramite esso, lo sono anch'io; e tramite i loro computer lo sono anche moltissime persone, milioni e milioni di persone. Tutto adesso, tutto qui e ora, anche se poi qui non si sa bene cosa sia, visto che le connessioni di oggi sono sempre qui ma anche altrove. Non ha quindi neanche senso domandarsi a cosa si e' connessi: si e' connessi e basta.
Ci sono molti tipi di connessioni: quelle lente, quelle veloci, quelle ultraveloci, quelle che puoi pagare in tante comode rate restando comodamente seduto sul divano di casa tua. E se paghi un po' di piu' puoi anche comprarti l'onnipotenza, mangiare dal frutto proibito dell'albero della conoscenza, bere dal Sacro Graal dell'informazione, ottenere... la CONNESSIONE ILLIMITATA. Oooooh, la connessione illimitata, quale fulgido, glorioso angelo del Paradiso delle connessioni. Che senso ha, quindi, chiedersi a cosa si è connessi? L'importante è essere connessi, e basta. Non più, si badi bene, 'connettersi'. No, no, no, quella e' roba preistorica. Non più connettersi, dunque, ma 'essere connessi'. Cioe' non piu' fare qualcosa, ma diventare in un certo modo, trasformarsi, semplicemente essere. E se 'sei' connesso, sei connesso e basta. A cosa, non importa più.

Qualche tempo fa, però, mi ponevo un'altra domanda. Non mi chiedevo: 'Connesso a cosa?'; la mia domanda era giusto giusto un po' diversa. La mia domanda era:

Connesso... 'cosa'?

Se da un lato non ha piu' senso chiedersi a cosa si è connessi, forse sarebbe il momento di chiedersi cosa e' connesso a cos'altro. O chi e' connesso a chi altri. Qualche tempo fa, io non ero connesso. Proprio cosi': ero un esemplare del popolo dei non-connessi, cioe' dei disconnessi. Non era la fine del mondo, per carita', pero' tutto era... strano. L'informazione esterna faticava a entrare dentro, se non attraverso qualche raro eco lontano, che si disperdeva e si estingueva in un tempo breve, lasciando poche tracce inutili. L'informazione interna, poi, non riusciva a uscire mai. Pensare che di informazione ce ne era, eccome: idee, parole, progetti, ambizioni, sentimenti. Ma niente, restavano dentro, diventavano sciami di mosche impazzite che sbattevano la testa su spesse lastre di vetro opache, diventavano vortici, mulinelli, giostre velocissime e colorate. Ma erano giostre tristi, senza bambini.

Se penso a com'ero in quel periodo... bhe', devo ammettere che ero decisamente noioso. Sempre imbronciato, sempre silenzioso, sempre con una faccia da sfinge pronta a pronunciare enigmi talmente cervellotici che la gente attorno non provava neanche a risolvere. Ero, soprattutto, annoiato: annoiato dalla citta', con le sue strade, le luci, le vetrine; annoiato dai parenti, dagli amici, persino dai nemici; annoiato dalle mie giornate cosi' cupe, dove i colori e i sapori non esistevano più; annoiato dalle risate degli altri, dalle parole degli altri che, dopo un po', smettevano di essere rivolte a me e si rivolgevano quindi a altri ancora,;annoiato dal sesso, dalla castita', dalla cultura e dall'ignoranza, da tutto quello che mi circondava ma non mi toccava, da tutto quello che a cui gli altri si connettono nel tempo di un CLICK. Quindi forse, in parole povere, non mi domandavo neanche cosa fosse connesso a cosa. Mi domandavo, piu' semplicemente, a cosa avrei dovuto connettermi io per sentirmi... bho', forse per sentirmi connesso anch'io...

Allora, decisi di fare un passo indietro. Cominciai a pensare a forme di connessione piu' antiche, di certo meno sofisticate e tecnologicamente avanzate di quelle di oggi, pero' importantissime. Sono connessioni primordiali, essenziali, che caratterizzano noi tutti in quanto creature dotate di qualcosa di speciale, misterioso, quasi magico: il pensiero!
Il pensiero e' fatto di pensieri. I pensieri possono sbocciare come stelle alpine solitarie, eruzioni occasionali, tanto incandescenti quanto devastanti, o come lupi selvaggi che vagano fuori dal branco (e per giunta di notte, il piu' delle volte). Molto spesso, pero', i pensieri, anche i piu' solitari, nascosti, proibiti o inespressi, si connettono fra di loro. Lo fanno con una naturalezza e spontaneita' che, se non c'e' non hanno nemmeno bisogno dell'abbonamento mensile, visto che tutto e' naturalmente e umanamente gratis, veramente ci sarebbe da chiedersi come mai molta gente abbia rinunciato a utilizzare al meglio le connessioni delle proprie idee...

Il pensiero e' fatto di pensieri e i pensieri sono espressi, a volte, con le parole. Anche le parole si connettono facilmente. Ricordo, anni e anni fa, le lezioni di Logica. L'aula era sempre piena, per quanto possa essere piena un'aula di Filosofia, tutti attenti alle precise definizioni del professore, tracciate con gessetto bianco sulla lavagna nera, spiegate, rese esplicite, disambiguate con la tipica chiarezza dei filosofi. (Dei filosofi veri, perlomeno). In una delle prime lezioni, il professore di logica spiego' i connettivi logici, che altro non sono che connessioni, cioe' gli operatori attraverso i quali le proposizioni - e quindi, a volte, anche le idee - si connettono fra di loro. C'erano le disgiunzioni, quella inclusiva e quella inclusiva; l'implicazione; la doppia implicazione, o coimplicazione; la negazione... I simboli tracciati sulla lavagna simboleggiavano il modo in cui i pensieri si connettono, formando argomenti, ragionamenti, sillogismi precisi, a volte inimagginabili paradossi. Il primo simbolo, una specie di 'V' rovesciata, rappresentava la congiunzione logica. Cioe' l'unione. Cioe', la piu' potente delle connessioni. Cioe', grammaticalmente parlando, la 'E'. Si' si', proprio cosi': nulla di trascendentale! Giusto la E come 'Guerra e Pace' oppure 'Gianni e Pinotto'. La base di ogni connessione, anche quella delle idee.

Una sera, il fascino solenne della 'E' mi colpi' in tutta la sua violenza. Una violenza che, come una scossa, mi riporto' alla vita. Ero ancora non-connesso, quella sera. All'interno di un ufficio immobiliare, nel cuore di Soho, il celebre quartiere piu' vizioso di Londra, mi ritrovai a parlare di me con un tizio inglese alquanto saputello. Lui mi chiese: 'Cosa vuoi fare nella vita?' Io non riuscivo a rispondere: sentivo una strana angoscia nella pancia, le orecchie che fischiavano, il respiro sempre piu' corto. Fuori pioveva.
Diedi una risposta, e lui non mi credette. Risposi di nuovo, ma lui non era ancora convinto. Chissa' perche', avevo voglia di piangere. Mai come in quella sera mi sono sentito piu' vulnerabile, fragile, impotente come una gocciolina di pioggia che non sa come arrestare la sua caduta vertiginosa.
'Io voglio essere...' risposi, trattenendo le lacrime. Lui mi guardo', aspettando il resto.
'E voglio anche essere...' Il mio interlocutore, stranamente, sorrise.

Quella sera, sentii la liberta' su di me. La libertà di poter connettere le mie scelte. Vedete, l'importante non è che cosa ho detto quella volta, in quell'ufficio di Soho, mentre fuori pioveva. L'importante e' aver fatto la connessione, aver preso due pensieri e averli uniti con una semplice e strabiliante 'E'. La 'E' la scrivo maiuscola di proposito: perche' connettere le idee le rende grandi. Io voglio essere a E b, io voglio essere Guerra E Pace, io voglio essere persino Pinco E Pallino.

Da quella volta, sono uscito fuori, allo scoperto. Da quella volta volta non faccio più parte del popolo dei disconnessi, o non-connessi come che sia. Pronunciare i miei pensieri a voce alta è stato il primo passo verso la loro materializzazione. Anche la loro connessione ha cominciato a materializzarsi da quella sera a Londra con temporale.

Adesso sono anche io connesso: perche' sono connesso più intimamente ai miei pensieri e i miei pensieri sono connessi fra di loro. E ho scoperto, accettato, proclamato, che per quanto la società mi imponga le sue restrizioni, le sue regole, le sue selezioni, io non sono nato per fare solo una cosa. Io non sono nato essere uno specialista. Io dalla vita voglio questo E quello E quell'altro. Cioè, io voglio tutto. E se lo penso, e se lo dico, vuol dire che sono già sulla buona strada...